La Petite Trotte à Léon – Chamonix (FR)

1 Settembre 2013 at 8:41
26.08.2013-01.09.2013
La Petite Trotte à Léon – Chamonix (FR)
Sono le sette del mattino e sono cinque giorni che su uno dei letti della casa di famiglia al lago campeggia una selezione di maglie, magliette, pile, calzini e attrezzatura varia da montagna. Più passano i giorni e più l’eccitazione e l’emozione per l’avventura che mi appresto a compiere crescono. La traduzione del road-boak è stata impegnativa e senza  l’aiuto di Mamma, Papà, Mattia e Silvie sarebbe stata impossibile. Alla fine la mia ceck list è completa e posso iniziare a entrare nel clima della sfida PTL.
Mi torna alla mente un anno passato a correre un sacco di chilometri e a provare ad intuire un programma di allenamento che possa rimediare ad una grossa carenza di fondo: non abito a Chamonix ma a Bollate.
Cerco di svuotare la mente, forse Maurizio il mio capitano ha ragione e l’aver atteso di partire per Chamonix la mattina stessa della gara è la scelta giusta, così non carichiamo l’adrenalina troppo presto. Forse mi sarei sentito più tranquillo ad arrivare la qualche giorno prima, prenotare una stanza solo per me e gestire i miei tempi ed emozioni per ambientarmi meglio. Sono tutti dettagli apparentemente insignificanti, ma possono fare la differenza.
Arrivano le 08:30, posso caricare la macchina e avvicinarmi al punto di incontro con Maurizio.  Sul posto trovo con lui Sonia e Walter. Sonia è decisamente emozionata, Maurizio appare sereno e contento. Un veloce saluto, qualche raccomandazione e poi via, si parte. Il viaggio scorre placido, tranquillo, senza fretta.
Il tempo è sereno, qualche nuvola a nord, ma Fabio ci conferma che a Chamonix è bello e soleggiato. Una breve sosta per un caffè e poi via senza indugio sino al traforo. Quest’anno è la seconda volta che passo il Tunnel del Monte Bianco verso la Francia, e non sarà neppure l’ultima.
Appena sbuchiamo dall’uscita del traforo una moltitudine di pensieri mi assale. I ricordi di un’estate magnifica per primi mi rallegrano. I primi quindici giorni di agosto sono stati bellissimi, due settimane stupende fatte di grandi camminate, serate allegre e ore serenissime. Due settimane passate con chi esattamente avrei voluto con me. Non cambierei queste vacanze con nulla al mondo.
Poi mi assale un poco di ansia, ormai le ore che ci dividono dal via sono agli sgoccioli e abbiamo di fronte a noi lo svolgimento di tutte le pratiche burocratiche, doverose, ma che caricano ancora di più il nervoso. Mantengo la calma e cerco nel paesaggio l’armonia.
Arriviamo al parcheggio destinato ai concorrenti e, come da accordi, sul fondo di esso troviamo il camper di Fabio. Oscar, Diego e Fabio stanno rilassandosi, il clima non è ancora pre-gara. Decidiamo un programma per la giornata. Mangio una dose abbondate del riso in insalata che mi sono portato da casa… è già ora di andare, il tempo mi appare esiguo, inizio a temere che non riuscirò a rilassarmi adeguatamente prima della partenza.
Ci muoviamo con gli zaini verso il centro sportivo di Chamonix. Ci aspetta il ritiro dei pettorali e il controllo del materiale obbligatorio. Non facciamo in tempo ad arrivare che scopriamo che il materiale è a “discrezione” dei partecipanti e la presenza di esso è lasciata alla coscienza di ognuno di noi. Diversamente da quanto comunicato in precedenza, inoltre, il road-book è disponibile anche in italiano. Mi acciglio un poco pensando a quante energie e fatica abbia speso nei giorni passati a tradurre ed impaginare il nostro road-book.
L’entusiasmo comunque non scende e, con l’euforia che contraddistingue le Tartarughe, ci muoviamo ordinatamente verso i volontari addetti alla nostra registrazione. Questo è il momento per confrontarci con gli altri corridori, per capire se i loro zaini sono grossi e pieni come i nostri. Vediamo di tutto, concorrenti che hanno zaini che sarebbero insufficienti anche per correre la UTMB.
In coda incontro anche Jérémi, il mio istruttore di Trail Running dell’anno scorso… lui è qua per accompagnare un gruppo di suoi amici, non per correre la gara. Non si prodiga nel darmi alcun suggerimento dell’ultimo momento per la gara, cosa che invece era successo l’anno passato per la CCC, la cosa mi fa pensare che di trucchi per questa PTL ne servano ben pochi.
Arriva il nostro turno, un volontario ci fa muovere verso un addetto che verifica la nostra identità, dopodiché ci vengono consegnate le maglie tecniche a ricordo della partecipazione, i pettorali, le tre buste per i cambi nei tre centri vita della gara, le cartine ed infine la fantomatica “balise elettronica”, il trasmettitore che permetterà all’organizzazione e a ci sta a casa di seguirci lungo il percorso.
Armati di quel che ci serve per partire torniamo al camper, è giunta l’ora di riempire la nostre sacche dei cambi.
Differentemente da quanto successo negli anni passati, pare che ognuno di noi sia già pronto per l’operazione. Il ricordo di un Maurizio smarrito tra mille capi di abbigliamento sotto il colonnato della partenza della funivia della Aiguille du Midi è lontano… ognuno di noi ha già preparato le sue buste e ci limitiamo ad un banale “trasbordo” tra contenitori.
Non possiamo fare a meno che pensare ad Antonio, il nostro vicepresidente, ed immaginarlo a divincolarsi nella preparazione dello zaino e del materiale obbligatorio, mentre grida all’inutilità di metà del contenuto del kit medico che sta infilando nello zaino e al peso che esso ha assunto. Allegre risate risuonano nel parcheggio e l’immagine appena descritta allenta la tensione di noi tutti.
Maurizio comunque decide di regalarmi un fuori programma che mi ricorda della sbadataggine del mio capitano… già non trova più la balise elettronica, che in realtà aveva posto nelle scarpe per la partenza per non perderla… appunto.

Risolto il primo, ed unico, dramma della giornata ci muoviamo di nuovo verso il centro sportivo. Il pomeriggio avanza e il sogno di potermi sdraiare qualche ora svanisce del tutto. Dobbiamo infatti accompagnare Oscar e Maurizio in un negozio del centro. Già io, poi Fabio ed infine Diego ci siamo forniti di un ottima mantella per la pioggia (che andrà a garantire una maggiore gestione delle termica con il brutto tempo e a sostituire anche il copri zaino). Oscar e Maurizio non vogliono essere da meno. Tornati al camper ci dedichiamo ad una buffa prova di gruppo che ci fa sembrare una comitiva di puffi. Le mantelle sono infatti di un blu accesissimo.

Le ore volano, neppure il tempo di ridere e scherzare a tema che ci rendiamo conto che stanno per arrivare le scadenze successive del nostro pomeriggio: la consegna delle borse per i cambi, il briefing e il pasto pre-gara. Si compie un gesto che sa di definitivo ed irrimediabile, ci dobbiamo vestire per la gara e dobbiamo chiudere gli zaini. Non c’è più posto per incertezze, ripensamenti, cambi di abbigliamento… ora tutto ha il sapore del definitivo. Mi assale un poco di ansia e di nervoso.
Ci mettiamo a questo punto di nuovo in cammino per le vie di Chamonix ed, arrivati di nuovo al centro nevralgico dell’organizzazione delle gare, scopriamo una gestione quasi autonoma del ritiro delle sacche. Al momento la cosa mi lascia un po’ basito, alla fine siamo in seno all’organizzazione della UTMB che non lascia nulla al caso. Oggi, con il senno di poi, mi rendo conto che questa PTL alla fine è una prova di totale autonomia e autosufficianza, ancora prima di partire.
Scarichi finalmente dei nostri fardelli, incontriamo Fiona e Giovanni. Liviana è stata sino ad ora testimone di tutte le fasi e ora si profila il gruppo dei sostenitori che ci saranno vicini alla partenza. Con loro ci rechiamo alla mensa delle scuole comunali per ricevere il pasto prima della partenza: una pasta, un dolce, della birra. Io mangio solo un abbondante piatto di pasta in bianco, ben salato e null’altro. Bevo molto. Cerco di trovare serenità e tranquillità. Il tempo in mensa, assieme a tutti gli altri corridori, mi mette un pelo di ansia e chiedo al gruppo di spostarci in un bar vicino alla partenza per cercare un po’ di raccoglimento. Ammetto che non mi sto molto godendo questi momenti, avrei preferito stare solo in un ambiente silenzioso con della buona musica nelle orecchie.
Ci muoviamo verso il Bar dello Sport, meta di piacevoli serate della mia estate Chamonoise. Qui ci sediamo in un tavolino all’interno del locale e ordiniamo del caffè. Il momento è giusto per cambiare la maglia da corta a maniche lunghe e per gli ultimi ritocchi di attrezzatura. Ci dilunghiamo un poco e riceviamo gli auguri ed i complimenti per “il coraggio” da parte della gestrice e di alcuni avventori.
Manca poco al via, mi lavo i denti, mi spalmo la crema anti frizione e indosso la giacca in GoreTex, fiori ormai è buio. Alla fine non sono riuscito a trovare un solo momento di raccoglimento e riposo, la cosa ormai non mi preoccupa, ormai è vivo in me solo il fatto di essere davvero felicissimo di vivere questa esperienza con Maurizio.
Resta comunque poco tempo per concedere troppo spazio a queste riflessioni, infatti ci appropinquiamo all’arco di partenza. Che impressione, le strade vicino al via sono gremite di gente e attorno ad una breccia tra le transenne che costeggiano i primi metri della partenza, la folla si apre al nostro passaggio. Gli sguardi sono ammirati, tutti applaudono e ci guardano con occhi che dicono molto, tanto.

Il clima è esattamente quello che ricordavo l’anno passato e quello che mi ha spinto ad iscrivermi: Magia ed emozione pura. Le squadre fanno gruppetto tra loro e cercano negli sguardi dei loro compagni la spinta per iniziare questa avventura, attorno a loro i parenti e gli amici più intimi.

A Liviana, Fiona e Giovanni si unisce Corrado, che è arrivato a Chamonix per accompagnare il team competitivo Vibram in corsa per la UTMB. Che visione, le mie vacanze qui sono state caratterizzate anche da momenti di condivisione con Corrado, che la prima settimana di agosto era qui con i figli, Costanze ed Edoardo, e con i quali abbiamo passato qualche bella serata in clima familiare. Sembra tutto quasi un cerchio che si va a chiudere. Un’estate trascorsa con persone per me molto importanti, una in particolare, in luoghi che adoro ora sta per culminare con un esperienza che avrà tinte e sapori fortissimi, di sicuro, in ogni caso.
L’organizzazione chiede ad amici e parenti di abbandonare la zona di via. Adesso il clima si modifica dal calore affettuoso dei saluti, all’adrenalina dei pochi momenti che anticipano il via. Scoccano le 21:58 e le note di “Conquest for Paradise” di Vangelis echeggiano nell’aria.  Mi manca il respiro, mi viene in mente l’arrivo dell’anno scorso e in questo preciso momento penso al grande assente di questa partenza, alla persona di cui sento una precisa ed istantanea nostalgia: Luca.
Cinq, Quatre, Trois, Deux… si parte! Qualcuno corre, io e Maurizio abbiamo le idee chiarissime, questa partenza deve durare il tempo giusto e deve stamparsi nel nostro cervello. Ringrazio ancora Maurizio per aver condiviso questa scelta, questo sarà uno dei pochi momenti agonistici, non umani ovviamente, della PTL dagli esclusivi contorni piacevoli.
Camminiamo e ci guardiamo tutto attorno.  Un popolo infinito di appassionati e passanti si cinge attorno al primo chilometro di gara. Applausi, incitazioni, pacche sulle spalle, mani tese per ricevere un cinque. La commozione sale e nella testa turbinano mille pensieri. Sono al centro della magica partenza della PTL. “Maurizio ci sei?” chiedo più volte, quasi come per paura di perdere il mio capitano già al via. La concitazione del momento mi fa quasi pensare a chissà quale folla di corridori animi questa partenza, ma in realtà siamo poco più di duecento, quattro gatti, o quattro matti sarebbe il caso di dire. Maurizio comunque è sempre li, un passo dietro o al mio fianco, e commenta con me la magia di questo momento. “Guarda quanta gente sul ponte”, “Oddio ma qua sono di più che in centro” e ancora “Qui ce ne sono persino di più che prima”. Costeggiamo l’ultimo tratto di strada asfaltata e assieme ad esso abbandoniamo il nostro pubblico. Gli ultimi testimoni, coloro che si sono spinti sino al limite della città ci regalano la chiarezza dei loro commenti e dei loro auguri, ora le voci dalla confusione di una folla festante sono distinte e chiare.
Inizia la salita per il Col du Brevent. La mia mente va a chi a casa starà un poco con il cuore in gola, in apprensione per questa nostra avventura. Io ho preparato una piccola lista di distribuzione di messaggi per tenerli aggiornati. La lista è semplice: Ci sono mia madre e mio padre, che faranno poi da portavoce con la famiglia, e poi c’è una persona che sarà messaggera per le Tartarughe. Più che altro, e non me ne vogliate, scrivo a lei perché voglio farle arrivare le emozioni di questa gara, dopo che per due settimane è stata “travolta” dalla potenza di queste montagne. La sento un po’ come una delle poche persone in grado di capire tutte le sfumature di questa avventura.
La salita scorre sotto i nostri piedi facile, non sento il dislivello arrivare ed il passo del gruppo in cui io e Maurizio ci siamo trovati raggruppati è agevole, forse un po’ troppo discontinuo, ma facile da seguire. Segue una serie di sorpassi per cercare maggiore continuità e nel frattempo chiacchieriamo un po’ con un concorrente di Venezia. Ogni tanto mando un richiamo più sopra: “Tartarughe, ci siete?” e a turno Diego, Fabio e Oscar rispondono. Diego con un vibrante “Presenti”, Oscar con un pacato e cortese “Ci siamo”, Fabio con un “Oooooooo…”. Tre uomini, tre caratteri diversi.
La serata è magnifica, il cielo è terso e la temperatura mite, scorgo benissimo il crinale che piega sul campo di decollo dei parapendio in prossimità del primo segmento della cabinovia del Brévent. Quando valichiamo incontriamo un bel gruppo di concorrenti che si fermano a cambiare abbigliamento o a mangiare qualcosa. Noi stiamo bene ed attacchiamo il colle direttamente senza sosta. Mi torna alla mente lo strano episodio vissuto qui una decina di giorni prima, quando scendendo da questo sentiero continuavamo ad udire una tromba risuonare tra le rocce… una serie di racconti immaginari nacquero attorno a quel suono e io adesso mi immagino il fantasma di un alpinista-musicista che svolazza lungo questo pendio.
Quando arrivo al colle trovo Oscar, Diego e Fabio intenti ad un cambio di abiti. Maurizio mi raggiunge poco dopo e mi invita a scendere per prendere un po’ di vantaggio su di loro. Sapendo il mio punto debole non esito e parto. La discesa in realtà è magica, le gambe vanno da sole e tengo la testa del gruppo per tutto il tratto successivo. Le voci di Maurizio e Diego si fanno sempre più lontane e io seguo un goffo concorrente che procede molto velocemente ma cadendo ogni tre passi… io individuo nelle sue cadute il punto preciso in cui non passare. La tecnica funziona. Arrivo in fondo al dislivello con una decina di minuti buoni di vantaggio su Oscar. Mangio qualcosa, riprendo fiato e vedo i miei arrivare uno alla volta.
Oscar ha uno slancio di premura verso di me e si sincera del fatto che stia mangiando e bevendo, io la rassicuro. Arriva anche il momento di un primo (ed uno dei rari che ci siamo goduti) rituale di gruppo. Chi scostando i pantaloncini, chi calandoli, con dovizia ci dedichiamo tutti ad innaffiare la ricca natura attorno a noi.
Si passa sul ponte sul torrente Diosaz e si attacca la salita al Col D’Anterne. L’ascesa è meno impegnativa e più dolce del precedente colle, si procede con facilità. Sento che qualcosa non va tanto bene, ho un po’ di freddo e non riesco a digerire quanto mangiato poco sotto. Temo di essermi preso una mezza congestione. Neppure il tempo di scollinare che il timore si manifesta in realtà. Senza fermarmi un attimo do di stomaco, e continuo a corricchiare in discesa. Maurizio si gira per un attimo, vedo per qualche secondo la preoccupazione sul suo viso, poi si accorge che io continuo a procedere e la tensione si stempera.
Inizia un tratto di piccolo calvario per me, la voglia di bere e di mangiare sono svanite, ma mi devo sforzare quantomeno di idratarmi. Ogni volta che bevo la nausea ritorna e trattenerla è sempre una fatica. Perdo di concentrazione e di fuoco… non riesco ad astrarre il pensiero e sento la fatica. “Avanti” mi dico “vivrai altri ed altri momenti di crisi in questi trecento chilometri, devi superarti”. Mi faccio forza. Ovviamente ogni male non viene da solo e la discesa da questo colle non è delle migliori. Rocce umide miste a fango rallentano il nostro procedere. Il mio malore, misto ad un pelo di sconforto, rendono il tutto meno lucido e non riesco a concentrarmi bene sui miei passi. Penso a lei per trovare allegria.
Finalmente la discesa lascia il passo ad un po’ di falsopiano. Incrociamo un rifugio buio e solitario, forse chiuso. Si tratta di uno dei due rifugi descritti dal road book, nelle cui prossimità è raccomandato il silenzio più assoluto per non disturbare gli escursionisti al riposo dentro essi. Chissà perché, nella mia fervida immaginazione, mi ero immaginato che essi sarebbero stati svegli ad aspettarci ed invece nulla, neppure il timido chiarore di una lucetta ammorbidisce il clima di solitudine e buio che circonda il rifugio. Chiedo a Maurizio una pausa ed un intuizione mi aiuta a superare la crisi: masticando un paio di gomme alla menta riesco a riattivare la salivazione e la digestione, finalmente posso bere senza fastidio.
Attacchiamo a questo punto l’ascesa della Valle De Sales. La salita è dolce e continua, il mio passo migliora visibilmente e stacco di un poco Maurizio. Al nostro fianco si ode il rumore di acqua che scorre rapida, sempre più rapida. Il sentiero è ottimo e facilmente percorribile, assieme alla facilità di avanzamento torna il buonumore. Mangio qualcosa per aiutare il recupero.

Arrivano le prime luci dell’alba, la luce è quanto basta per scorgere le cascate al nostro fianco. Riesco persino a fare una fotografia che poi scoprirò essere uscita decente. Sarebbe un peccato non ritrarre questo pezzo. Un poco di sconforto comunque non mi abbandona, secondo il road book di qua saremmo dovuti passare ancora con il buio, perdendoci il panorama. La bellezza della cascata lenisce la preoccupazione e mi da nuova forza per provare ad accelerare ulteriormente il passo.

Arriviamo su di un altopiano, dominato da vette e pareti di roccia e costellato da chalet. Il paesaggio è magnifico e incantevole, per un paio di chilometri il cammino è sensibilmente piano, giusto il tempo di farci rapire dalla bellezza e perdere il sentiero di qualche centinaia di metri. Attraversiamo un vasto prato brinato, il freddo ai piedi è intenso, sento il ghiaccio che raffredda le scarpe e che poi sciogliendosi rende le calze umide.
Incontriamo qualche altra squadra che superiamo, dopodiché volgiamo ad est lungo un pendio erboso sul quale sono distribuiti cespugli e rocce. Il sentiero è difficile da trovare ma la luce del sole ed il GPS aiutano. Da lontano scorgiamo la serpentina che si arrampica sul colle. Dopo il superamento di un piccolo strapiombo roccioso, finalmente inizia la salita al Colle de Portetette. La salita è tosta, tostissima, ripida, quasi impennata ma fortunatamente corta. Il mio passo adesso è davvero ottimo, attacco con vigore la salita, stacco Maurizio e una squadra di francesi che ci erano stati davanti sino a quel momento. Arrivo in cima e mi riparo a ridosso di rocce dal vento, bevo quel che mi rimane dell’acqua gassata che avevo con me.
Arriva a questo punto deciso e caldo il sole ed assieme a lui intravvediamo il primo rifugio abitato della gara. La discesa non è delle più agevoli, ma il miraggio di una bibita fresca e gassata mi fa procedere con buon umore. Mi fermo al rifugio qualche minuto, ordino un’acqua gasata e due lattine di Orangina. Devo recuperare energie, zuccheri e devo cercare di tornare a mangiare. Le bibite sono un toccasana, mi sistemano non poco, riesco a mangiare persino un panino della mia scorta senza fatica. Mi rifornisco di liquidi, mi faccio riempire la borraccia di acqua e menta e parto con nuove forze.
Lo stratagemma dell’acqua e menta è qualcosa di già sperimentato, il sapore fresco della bevanda aggiunge buonumore. Maurizio a questo giro attacca per primo la salita e accumula un certo distacco. Io affronto la prima parte dell’ascesa con maggiore prudenza, ma poi ingrano un passo molto deciso. La salita successiva è impegnativa, si salgono delle terrazze ripide tagliate da costoni di rocce. Il paesaggio si ripete tre o quattro volte sino a condurci alla rampa finale verso il colle di Tré L’Epaullé. Poco prima raggiungo Maurizio che mi chiede se vogliamo concederci un attimo di sosta. Io gli chiedo di mettere in cantina tutta la salita e di comune accordo continuiamo a salire. Altri sono i gruppi che superiamo e appare proprio che ci si stia rifacendo del ritardo accumulato probabilmente a causo dello stato di sofferenza che ho provato nelle precedenti discese notturne.

Arrivati in cima ci si apre un paesaggio granitico stupendo, maestoso ed al contempo spaventoso. Dovremmo scendere proprio da li. La gara qui cambia passo, dopo un primo tratto di discesa percorribile e facile da seguire, ci muoviamo su una morena molto estesa in cui incominciano i primo problemi di orientamento. Finalmente raggiungiamo il primo volontario di tutta la gara, li sul posto per allontanare gli stambecchi che potrebbero farci rovinare addosso delle frane. Ci indica la via da seguire e a questo punto troviamo “qualche corda che aiuta la discesa”, in realtà il tratto si fa semi alpinistico, molto esposto e difficile da affrontare per via della via già infangata da chi è passato prima di noi. Anche se il tratto è molto tecnico non sono pochi i commenti di stupore che io e Maurizio ci concediamo per quello che si prospetta di fronte ai nostri occhi.

Anche se ammirati per il paesaggio avanziamo a fatica e con prudenza. In prossimità dell’ultima parete da superare, scorgiamo a pochi metri da noi una famiglia di stambecchi. L’esperienza è magnifica ma anche questo fugace momento è un sollievo momentaneo all’insopportabile discesa che porta al rifugio di Verran. Dapprima la pietraia degrada in un prato ripido attraversato da un sentiero melmoso e scivoloso, man mano il paesaggio diventa sempre più erboso, umido e scivoloso. Neppure il tempo di gioire per la vista dei tetti rossi dell’alpeggio antistante il rifugio, che il percorso piega a sinistra lungo un canalone quasi verticale, il cui fondo è costituito da una scura pietraia molto instabile. Le corde a supporto della discesa sono malmesse, alcune interrotte, altre tenute insieme letteralmente dallo spago. Arrivo in fondo alla discesa molto provato, più di testa che di fisico. L’ultimo tratto quasi pianeggiante lo affronto con Maurizio che prova ad impostare una tattica di gruppo per accelerare la velocità di discesa. La tecnica funziona, ma il tratto affrontato è davvero semplice.
Lo stomaco è tornato a darmi qualche fastidio, sicuramente per via della difficoltà e dalla tensione accumulata durante l’ultima discesa. Mi faccio forza e mangio quanto più posso. Pasta in bianco scondita e Coca Cola. Mi riprendo. Nel frattempo un altro concorrente inizia a spiegarci l’ascesa verso il col de Verts e sparge un inutile allarmismo tra noi. Pare che ci attenda morte quasi certa nel passare di li di notte. Io e Maurizio in realtà sorvoliamo sull’accaduto. Il commento di Maurizio è chiaro e limpido “In gara mai dare retta alle voci degli altri concorrenti”. La sua affermazione viene sigillata da un responsabile di percorso che minimizza le paura del “menagramo”. Inizia a piovere.
Un piccolo tratto di salita anticipa una discesa che definirei indegna. Un sentiero fangoso torto e ritorto in un orribile ed insignificante pineta in cui dobbiamo anche superare un’altissima scala senza alcuna protezione. La sensazione di essere esposti a pericoli anche eccessivi aumenta sempre di più e mina lo spirito che andrebbe conservato saldo per molto tempo ancora. Più volte mi domando come mai l’organizzazione avesse voluto rendere il percorso così selettivo, ma sorvolo questi pensieri e procedo lentamente e a fatica. In alcuni momenti ho osato anche mandare qualche maledizione a Santa Madame Poletti, ma poi mi ravvedo e torno ad adorarne la castità e la sacralità di matrona della UTMB.
Davanti a noi continuiamo ad intrecciare un gruppo di italiani, anche loro a fatica procedono lungo la discesa. La pioggia si fa più insistente e diviene acquazzone, peggiorando la già pessima stabilità del terreno.
Finalmente il sentiero si fa più percorribile, ma in questo tratto viviamo le prime vere difficoltà di orientamento.  La via è davvero difficile da trovare e più volte ci perdiamo. Ci capita di scendere e risalire molte volte, perdendo tempo prezioso. I nostri compagni di sventura si trovano nelle stesse condizioni. Finalmente, lungo una via sterrata carrabile, una coppia che transitava di li con un grosso fuoristrada ci indica la giusta direzione. Segue una ripida discesa verso il paese di Magland.
La bruttissima e insignificante discesa è stata solo preludio dell’orrore e dello squallore che avremmo trovato poco sotto. La gara ci sbatte ad attraversare una trafficata provinciale e scopriamo che Magland nulla è che un accozzaglia di capannoni industriali, autorimesse e fabbriche… mi sembra di essere tornato a correre nel Lura. L’umore non ne giova. Infreddoliti, bagnati e affamati cerchiamo un bar, un ristorante… ma nulla. Oltre ad essere finiti in un paese orribili, il paese è pure inutile. Per fortuna incrociamo una fabbrica e dei gentili operai ci danno un momentaneo ristoro. Potere alla classe operaria sarebbe il caso di dire! Sfruttando i distributori di caffè e bibite ci riorganizziamo e ristoriamo per partire verso l’ascesa verso il Refuge de la Pointe Perceé.
Pare che la popolazione di questa orrida valle ami battere sentieri illogici. Quello che ci troviamo di fronte è un continuo ripetersi di ascese verticali, dritte e ripidissime su sentiero fangoso. Un tormento. Più volte incrociamo abitati sparsi lungo le pendici delle montagne. Ad un certo punto vedo spuntare in mezzo ad un gregge di pecore due cani enormi, bianchi, rabbiosi che si dirigono verso di me abbaiando. Un poco rincuorato dalla presenza di un recinto elettrificato, procedo senza troppo indugiare. Guardo i cani che sono comunque di una bellezza incredibile, sembrano appena usciti da un salone di bellezza. Vaporosi, bianchissimi, due nuvole rabbiose e ringhianti. Che strano contrasto.
Riprende la nausea, ma a questo punto decido di accedere al kit medico e di prendere una pillola per contrastare la sensazione. Il conforto arriva abbastanza in fretta. Nel frattempo finalmente smette di piovere. Maurizio ne approfitta per invitarmi a stendere la mantella all’esterno dello zaino per farla asciugare. Ci aspetterà una lunga notte e qualsiasi capo possa compartecipare alla gestione della termica sarà prezioso.
Poco avanti, per fortuna, il paesaggio riprende ad assomigliare a montagna ed i sentieri a muoversi su direttive meno ripide e tornati più affrontabili. Sta per imbrunire. Guardo in alto e vedo pareti verticali sopra di noi, spero che tra esse non si inerpichi la via di ascesa, cosa che ahimè invece succede.
Al coincidere delle ultime luci inizia una ferrata esposta e verticale che prende quasi 400 metri di quota. Tutto sommato sono comunque più felice che trovarmi ancora in un paesaggio come quello che ci aveva portato a Magland. Salire è molto faticoso, il ritmo che teniamo non è leggero, ma l’avventura torna a sapere di montana.
Io e Maurizio, con la dovuta attenzione (siamo privi di kit da ferrata) saliamo lungo le ripide pareti di roccia. I traversi sono diversi e molto paurosi, sotto di noi domina sempre più il vuoto. Procediamo con il mio passo, che a detta di Maurizio è comunque veloce, anche se spesso mi fermo a prendere fiato. Sento un poco l’altitudine e cerco concentrazione, per questo qua e la mi arresto per trenta secondi o poco più.
Entro in uno stato mentale molto strano, tutto l’ascesa è un lunghissimo Déjà vu in cui ho la convinzione che tutti i tratti percorsi li abbia vissuti in una precedente gara. Ora dopo ora la sensazione mi confonde e mi inquieta. Per fortuna la precezione del Déjà vu non ha toni di paura e tragedia, anzi ho la sensazione precisa di aver già superato quel tratto.
Racconto a Maurizio di questa sensazione, in realtà da ore sto parlando con Maurizio di molte cose, alcune molto intime. Alla fine siamo li anche per questo, per cercare nell’esperienza un progredire del nostro rapporto. L’esperienza umana con Maurizio continua ad essere una delle poche note (anche se non da poco, intendiamoci) certamente positive della mia PTL. Alla fine era uno dei motivi principali per cui sono qui.
Nei tratti più verticali ho anche occasione di rendere qualcosa a Maurizio, e di insegnargli la tecnica per riporre velocemente i bastoni insegnatomi dalla mia guida Dominique. Vivo anche un attimo di disperazione: Maurizio mi fa un brutto scherzo e nel punto più esposto indugia a cambiarsi abbigliamento un po’ troppo. Mi aveva avvisato della cosa, ma i minuti diventavano troppi per indossare un pile.  Io lo chiamo, ma il vento non aiuta, non so quanti minuti siano passati, ma più di un pensiero pauroso mi è passato per la testa e più di una volta ho pensato anche di scendere a vedere dove fosse. Avete presente quando nella mente si insinuano i possibili scenari di una situazione? Io mi ero persino visto Maurizio che mentre indossava il suo capo di abbigliamento perdeva l’equilibrio e precipitava rovinosamente nel burrone sotto di noi. Mi sono addirittura venute le lacrime agli occhi e la voce tremante. Poi finalmente Maurizio arriva. La gioia torna in me, ma mi rendo conto che la stanchezza sta minando il mio equilibrio.
Passa poco che incontriamo una squadra che si ritira, si tratta della squadra del menagramo del rifugio di Veran. Pare che sopra le condizioni non siano per nulla agevoli e loro preferiscono tornare sui loro passi. Noi senza indugio continuiamo. Non c’è stato un momento di incertezza, sia perché la nostra missione della notte era quella di arrivare a qualsiasi ora al Plan De l’Aar, sia perché di certo non avremmo affrontato con il buio quella ripida ferrata in discesa.
L’accesso al pianoro erboso successivo al colle è per fortuna suggestiva, un taglio in mezzo ad alcune rocce che ci offre anche un riparo per un breve riposo di dieci minuti. Le frontali si riflettono sulla roccia bianca e ci troviamo in una palla ovattata di luce unica. Passerei la notte qui, non avessimo i cancelli, a parlare di mille cose con Maurizio. Per fortuna la strana ed allucinata ascesa ha cambiato qualcosa in me e di riflesso sto di nuovo davvero bene. Mangio qualcosa e confermo a Maurizio che possiamo riprendere.
La prossima meta è un alpeggio in quota. Il tracciato per quanto pianeggiante non è facile: erba alta, sentieri molto profondi e fangosi,  che a tratti spariscono. Il nostro sentiero più volte incrocia strade carrabili e altri sentieri,complicando la navigazione. Ad un certo punto Maurizio si rivolge a me meravigliato e mi dice: “ci devono essere delle squadre che si stanno fermando qui per la notte, guarda quante frontali la in fondo”, poi aguzziamo la vista, ci avviciniamo e ci rendiamo conto che si tratta di una mandria di mucche bellissime i cui occhi risplendono all’incrociare il fascio delle nostre frontali. Io per un attimo mi immagino abbracciato ad uno di questi placidi bestioni maculati, non per un improvviso amore per una vita bucolica e per la pastorizia, ma semplicemente perché il loro corpo fuma per il calore che – passando sopra a odore e mosche – potrebbe essere un bel rimedio al freddo umido che ormai mi assale. Ogni tanto vengo assalito da qualche attacco di sonno, Maurizio mi fa sciacquare il viso con delle ampie foglie bagnate che mi ristorano e risvegliano.
 
Con non pochi errori di percorso raggiungiamo finalmente l’alpeggio. L’ambiente non è accogliente. Le costruzioni sono di cemento e moderne, in testa ad esse una casa illuminata ma disabitata. Più volte proviamo a chiamare gli abitanti, ma senza fortuna. Un caffè a questo punto avrebbe giovato a concentrazione ed umore. Torna protagonista la paura dei cani: due brutti cagnacci si avvicinano a noi borbottando un mezzo ringhio, per fortuna due generose catene tengono le due orride e luride bestie lontane da noi. Certo l’effetto buio della notte e gli occhi delle fiere accese dalle nostre frontali è inquietate. Rasserenati dal giogo che vincola le due bestiacce, ci muoviamo nella proprietà alla ricerca della via.
Qui inizia la fine della nostra avventura, e sarà anche una lunga e rocambolesca fine.
Il buio ed un leggero nevischiare racchiudono la nostra visibilità a pochi metri. Tutti i sentieri che il tracciato GPS ci indica si interrompono nell’erba e per due ore abbondanti io e Maurizio cerchiamo in vano un sentiero che vada oltre un chilometro dall’alpeggio. L’abbondantissima pioggia delle ore precedenti deve aver fatto slittare zolle di erba che hanno cancellato il sentiero. Non aiuta neppure la scarsissima presenza di paline segnavia, che appaiono qua e la indefinite e poste senza troppa logica. I tentativi fatti diventano decine molto in fretta, ma senza alcun successo. Più volte torniamo sui nostri passi e cerchiamo una nuova via.
Nel frattempo tutto intorno a noi, su quello che appare come il fianco del passo da superare, a circa mille metri in linea d’aria decine di gruppi di luci brillano ad altezze diverse. Il grosso delle squadre avrebbe dovuto valicare prima del buio secondo il road-book, ma presto ci accorgiamo che probabilmente la stragrande maggioranza dei concorrenti deve ancora passare. Alle nostre spalle vediamo arrivare tre luci, procedono veloci prima verso l’alpeggio e poi verso di noi. Si tratta di una squadra de Gli Orsi, speriamo che seguendo loro si trovi la soluzione ai nostri guai. Invece quello che succede e che adesso i dispersi diventano cinque, armati di ben tre GPS che si dimostrano inutili. Le ore passano, diventano presto quattro e poi cinque.
Nessun tentativo va in porto, e nel continuare a sbagliare acquistiamo anche eccessiva quota, trovandosi a questo punto su un pendio estremamente ripido e scivoloso. Cadiamo più volte sull’erba bagnata e su dei costoni di roccia bianca e scivolosa. La stanchezza e lo sconforto, se sino ad ora avevano dato buffi segnali della loro presenza, adesso incominciano a farsi sentire, in maniera lucida e precisa. Siamo alla seconda notte senza neppure mezz’ora di sonno. Incomincio ad avere allucinazioni e le rocce bianche mi appaiono come case, bunker, buchi di sabbia e un infinità di altre forme. Cerco di pensare alla “mia compagna di stanza” che è a casa a sognare la mia, la nostra avventura. Cerco di pensare a momenti positivi, immagini che mi ispirino, ricordi freschi di poche settimane fa e trovo ancora la forza di lottare.
Io e Maurizio ci incoraggiamo a vicenda, proviamo ad avanzare reciproche ipotesi per uscire da questo stallo. Il tempo passa e arriva la percezione comune che ormai siamo fuori tempo massimo. Ormai si sono fatte le tre del mattino, anche nella peggiore delle ipotesi saremmo dovuti essere oltre il passo, oltre il prossimo rifugio, ristorati, con un buon pasto nello stomaco. Noi invece siamo bagnati, i piedi fanno male a causa del procedere nel fango e di traverso. Le dita continuano a spingere sul fondo della scarpa e l’umidità mi ha ormai cotto e spugnato del tutti le piante dei piedi.
Come ultimo tentativo provo a chiamare il direttore di gara. Al telefono trovo un volontario che parla solo francese e che poco si sforza di capire il mio pessimo tentativo di chiedere aiuto. Si limita ad indicarmi un generico Nord-Est, che alla fine è quello che abbiamo fatto per ore. Capisco che circa tre ore fa eravamo sulla strada giusta, ma dove eravamo tre ore fa?
Ci fermiamo e concepiamo che la nostra gara è finita. In realtà è Maurizio che mi fa concepire lo stato esatto delle cose. Il suo commento è pacato e serenissimo: “Peccato, l’arrivo a Chamonix era un sogno lontanissimo, ma qualche giorno in più tra i monti me lo sarei fatto”. Mi pervade un profondo senso di desolazione e di colpo arrivano stanchezza vera ed il sonno inplacabile. Non ho la stessa filosofia di Maurizio nell’affrontare la cosa, c’è un divario di maturità e di accettazione tra me e lui che è il tangibile segno del maggior numero di avventure da lui compiute (e concluse aggiungerei).
Decidiamo di tornare all’alpeggio, tratto comunque non facile, ci siamo alzati troppo di quota. Con fatica recuperiamo la costa più alta di un ripido pascolo e poi finalmente vediamo di nuovo la luce della casa disabitata. Ci accorgiamo che tutto attorno a noi è umido, bagnato. Accamparci sarebbe un esperienza poco piacevole. Il fondo della tenda si inumidirebbe subito e la sua stessa installazione sarebbe problematica. Gli unici tratti non scoscesi del paesaggio poggiano su un terreno duro e pressoché impossibile da picchettare. Avendo visto dei fuoristrada, cerchiamo la via che potrebbero aver percorso per arrivare in quota.
La notte a questo punto si fa sempre più strana. Troviamo le indicazioni per una località che speriamo sia abitata ed iniziamo la discesa. La strada è chiara e facile. I fuoristrada hanno però solcato la via con abbondanti buche che si presentano a noi come guadi insormontabili. I piedi sono sempre più bagnati, freddi e l’assenza dell’ardore agonistico mi fa sentire anche del  lieve dolore alle estremità delle dita.
Suona il telefono, si tratta dell’organizzazione che ci avvisa che ora siamo decisamente fuori strada. Arriva il momento ufficiale di comunicare il nostro ritiro. Scopriamo che anche  il team degli Orsi sta rientrando sui nostri passi. Si tratta di un momento davvero particolare. Dopo quei momenti di fatica e sconforto io è Maurizio ritroviamo pace e ricominciamo a godere dell’unico bene a nostra disposizione, la reciproca compagnia e complicità.
La strada diviene sempre più facile e possiamo concederci sempre di più i piaceri della conversazione. Nel frattempo ci sembra sempre di avvicinarci verso una strana località fatta di luci e parcheggi, località che non arriva in realtà mai. Il grottesco e l’anomalo man mano di fanno sempre più intensi. Ci imbattiamo in una costruzione nera, quasi sospesa di fronte a noi, enorme, con qualche finestrella e sospesa a mezz’aria. Ogni tentativo di capire cosa sia va vano. Le dimensione e la forma la fanno apparire quasi come una grossa nave in secca. Io scherzo dicendo che si tratta di un astronave, ma le forme poi non sono così lontane dal mio immaginario. Usando le immagini satellitari di Google ho ritrovato questa macchia nera nella foresta, ma la funzione della costruzione mi è oscura. La notte a questo punto si fa per me e Maurizio sempre più magica, a tratti direi inquietante.
La strada sfuma in un bosco fittissimo, e le ombre create dalle nostre frontali sono sempre più bizzarre, lunghe, deformi. Ad un tratto ho la chiara percezione di aver visto le fauci di un lupo bianco chiudersi tra le spire create dalle radici esposte di un pino. L’immagine si ripete, io sto sereno solo grazie alle spiegazioni che la parte lucida della mia mente mi da e grazie alla vicinanza di Maurizio. Lui è tranquillo ed imperturbabile e il suo sguardo mi conferma l’impossibilità razionale delle mie visioni. Io confesso queste allucinazioni al mio capitano. Maurizio tace e poi, dal nulla, commento la terza di queste visioni, esclamando placidamente “è vero, che bello, sembra artificiale, non naturale però, fatto da qualcuno”.
Le immagini si ripetono e ci accorgiamo che in effetti le radici sono scolpite e decorate con maestria. Buio, luce concentrata e le ombre che assieme a noi si muovono accentuano la dinamicità delle sculture sapientemente fuse nel legno della foresta. Nel frattempo arriva anche il sonno, quello vero, quello che ci costringe più volte a stringerci l’un l’altro per non cadere a terra come due sacchi di riso mezzi vuoti.
Il grottesco gioco di arte e magia della foresta continua. Percepisco chiaramente due bambini nel primo addentrarsi della foresta… ignoro la visione, sono ancora confuso dai decori delle radici per accettare altre novità. L’allucinazione si ripete e si colora delle idee che essa fa nascere nella mia mente. “Cosa diamine ci fanno due bambini soli nella notte nel cuore di questa foresta tetra e paurosa?”. Maurizio ad un tratto si scosta da me, abbandona il mio braccio e festoso acclama “guarda, ma qua ci sono degli gnomi”. Io sobbalzo. “Ci mancano solo gli gnomi!” e poi penso “come minimo adesso balzeranno fuori degli hobbit e un orco”. Giro la testa verso la voce di Maurizio e lo vedo in una radura che costeggia la strada a saltare divertito tra qualcosa che a tutti gli effetti appare essere un gruppetto di elfi. Si tratta di un gruppo scultoreo, mollato nel mezzo del nulla a due passi dalla nostra disfatta.
La tristezza lascia il posto allo stupore e man mano che procediamo troviamo altri ed altri gruppi di sculture a commento di un bosco che adesso ci pare incantato. Continuano le visioni da prolungata permanenza nel buio, mi pare di vedere case e chalet. Ad un certo punto mi sembra anche di vedere un tratto di strada asfaltata, una macchina ed un furgone parcheggiati. I piedi poggiano su di un appoggio regolare, sicuro e liscio, è davvero asfalto e davanti a noi ci sono davvero i due veicoli parcheggiati. Proviamo una veloce ispezione dei mezzi che appaiono apparentemente senza occupanti, poi immaginiamo che nel retro del furgone potrebbe consumarsi la più intensa passione tra due giovani amanti e decidiamo di allontanarci rispettosamente.
La strada è perfetta, l’asfalto liscio e nero, siamo di nuovo nella civiltà. Decido di riattivare la linea dati del mio cellulare e di aprire Google Maps per capire dove siamo finiti. Lo strumento mi indica “Tour Du Bargy” e la cosa mi viene confermata dai cartelli stradali. Veniamo raggiunti dalla squadra che con noi si è ritirata, ricevo in omaggio una fiala alla caffeina che poco riesce a fare con il sonno che ormai mi assale. Nel frattempo non mi viene in mente di cercare un centro abitato su Google Maps e errabondiamo un poco su e giù per la via. I nostri compagni ci abbandonano decidendo comunque di scendere. Finalmente mi ricordo di usare le mappe e puntiamo anche noi nella stessa direzione. Un paese dal nome alquanto derisorio a questo punto della nostra ritirata: Le Reposoir.
La tradizione sulle origini del paese risalgono infatti alla sua fondazione medioevale, il nome significa essenzialmente “Posto per Riposare” ed era una meta di frati dediti a questa “mansione”, noi esattamente di riposo a questo punto avevamo bisogno. Riposo che comunque si è fatto attendere. I diversi chilometri che ci dividevano dal paese, anche solo in linea d’aria, sono stati resi più interminabili dal lungo alternarsi di tornanti che prima si avvicinavano e poi si allontanavano dal paese.
Nel frattempo, ovviamente, il buio e le frontali continuano a giocarci strani scherzi: “Guarda, un animale bianco in mezzo alla strada, un coniglio” esclama Maurizio. Io volgo gli occhi dove punta la sua frontale e per suggestione vedo anche in un bel coniglione bianco in mezzo al manto stradale. Ci avviciniamo con cautela, per poi scoprire che si trattava di una freccia segnaletica (di quelle che indica il punto ultimo per rientrare da un sorpasso in Francia) finemente decorata da mille disegni (probabilmente dallo stesso folle artista che ha reso la foresta sovrastante “magica”). L’effetto risultante era una strana proiezione dall’aspetto tridimensionale che ha ingannato entrambi.
Passano i chilometri e finalmente entriamo in paese. La nostra follia ormai è alle stelle. Speriamo di trovare, in Francia, nel mezzo del nulla, alle cinque passate del mattino, con il buio che ancora ci abbraccia, in un paese a dodici chilometri dal primo centro abitato di decenti dimensioni, di poter trovare un Hotel o una pensione che ci accolga. Incominciamo a sognare una bella doccia e un sonno di qualche ora, a qualsiasi prezzo, prima di capire come riuscire a tornare a Chamonix. La realtà ci crolla addosso cruenta.
Dopo un vano vagare in un paese cinto tra le strette del riposo eterno, troviamo di nuovo i nostri colleghi ritirati sotto la tettoia del municipio che alla meglio stanno rimettendo i loro pezzi assieme dopo questa notte di follie. Io mi siedo, estraggo la coperta termica e provo ad avvolgermi in essa, poggio lo zaino sotto la testa e crollo in un sonno profondissimo.
Il mio sonno viene interrotto da una brezza gelida che batte la mia schiena. Apro gli occhi tremante e vedo che Maurizio è seduto poco distante da me e che l’altra squadra è in procinto di rimettersi in marcia. Il tanto accogliente comune di Le Reposoir non solo è privo di ogni facilitazione per ricevere turisti, ma non dispone neppure di collegamenti con altri paesi più grandi. Scopriamo che l’unico paese collegato con Chamonix è Cluses, a dodici chilometri a piedi da dove siamo. Io sono ancora spaesato e mi rendo conto che, seppur mi sia sembrato di aver dormito per un eternità, ho riposato solo un’ora e che sono ancora le sei del mattino.
Io e Maurizio tentenniamo ancora un poco, poi incontriamo un paesano che porta a spasso il suo cane. Un docile labrador di cui neppure io posso aver paura. Mentre cerchiamo di farci spiegare come raggiungere Chamonix a me viene un idea ed abbozzo un “Il existe un service de taxi quelque part près d’ici?” (esiste un servizio taxi da qualche parte qua attorno)… il nostro amico ignora la risposta, e io mi accendo di nuovo: “Internet… cerco su internet!”. Trovo quel che cerco e chiedo sempre al padrone del cane di telefonare al servizio taxi per noi, lui si presta gentilmente, prenotando un servizio taxi per le otto del mattino.
Nel frattempo, a corollario di tutto questo, tra noi tutti e tra tutti i passanti ce ci costeggiavano, chi avrà mai prescelto il cane per le sue effusione affettive (nasate umide, leccate, annusate genitali e strusciate)? Ovviamente il sottoscritto. Solo per la provvidenziale cortesia del suo padrone non ho estratto uno dei miei due bastoncini per infilarlo in uno dei due occhi della bestiaccia! “Va bene tutto, ma c@z#o vuoi capire che sei un cavolo di cane e che io NON ti amo?”. Maurizio ovviamente non perde l’occasione per sogghignare e poi per ridere dell’accaduto, più volte, ennesima avventura grottesca della nostra PTL.
Torna il buon umore, incominciamo a sognare una bella doccia calda, una ricca colazione e un po’ di riposo. Ma passano ancora i minuti e le ore e la sensazione di abbandono vissuta per tutta la notte si impossessa di noi: dove diamine è finito il taxi? Chiamo di nuovo l’operatrice, ora sono in autosufficienza come da aspettative della PTL, provo a farmi capire, ci riesco ma lei incredula mi dice “ma il viaggio voi lo avete già fatto”, dopo un po’ di insistenza riesco a farmi dare il numero del tassista… anche lui insite nel dire che ci ha già trasportati a destinazione. La situazione ha sempre più del cinematografica, sembra una gag da un film di Woody Allen: Io e Maurizio, stanchi e sporchi come due profughi, nel centro di un paese destinato al riposo di una popolazione eternamente stanca ma che a noi ha negato con ostinazione un giaciglio, in attesa di un taxi che pare abbiamo già preso e che pare ci abbia già portati a destinazione. Forse la sceneggiatura potrebbe persino essere adatta ad un episodio di “Ai Confini della Realtà”.
Dopo una serie di lunghi tentativi, convinco l’autista che deve tornare a prenderci. Quando arriva, anche lui incredulo, ci carica e ci spiega: “sono spiacente per l’inconveniente, ma due gruppi di italiani, a Le Reposoir, che prendono un taxi alle otto del mattino non è mai successo!”. Tutto chiaro, l’altra equipe di Italiani ci ha fregato il taxi, manco fossimo a Roma nell’orario di punta! Fortunati loro che non li ho incontrati più a Chamonix.
Fatti due rapidi conti sul numero di coincidenze tra pullman e treni da prendere per tornare a Chamonix decidiamo di affrontare la folle spesa di cento euro e ci facciamo condurre direttamente a Chamonix… il caro prezzo della sconfitta! Il viaggio in auto scorre veloce e la conversazione con il tassista è amabile, non ci sembra neppure vero ma finalmente siamo a Chamonix. Ritiriamo dalla mia vettura le nostre borse per andare a farci una bella doccia, ormai sono le dieci del mattino. Scopriamo che il centro sportivo è chiuso e che sino all’una non sarà possibile usare nessuno dei suoi servizi. Alla PTL appare difficile anche ritirarsi.  Ci sediamo appoggiati alle transenne dell’ingresso e con pazienza attendiamo che il centro apra, finalmente possiamo concederci i primi veri lussi del nostro ritiro: una doccia calda, un bagno, degli abiti freschi, dei medicamenti per porre rimedio al disastro dei miei piedi e una abbondate lavata di denti.
Mi sento nuovo, torniamo all’auto per depositare le borse e, finalmente, ci sediamo a mangiare qualcosa. La scelta cade automatica, risalendo la Rue de L’Aiguile di Midi l’occhio cade su una creperia. Mi torna in mente ancora, per l’ennesima volta, una persona e decido di lenirne la nostalgia offrendo al mio capitano una Crepe nel posto da lei tanto amato. Il lusso ci prende la mano, ordiniamo una crepe salata, della birra, del buon sidro, e persino una crepe dolce. Il piacere della compagnia di Maurizio, il suo sguardo allegro nel mangiare, il sapore della crepe e del sidro ed il ricordo di lei mi portano ad uno stato di benessere diffuso.
Il tempo vola veloce e Maurizio vuole provare a tornare a casa in giornata. Cerchiamo il “suo” pullman, e trasbordando il suo bagaglio a piedi attraverso l’intera città chiudiamo la nostra avventura assieme, o meglio la nostra PTL assieme. Sediamo assieme al bar di fronte alla stazione di Chamonix e assaporiamo quello che ci appare essere il più  buon caffè della città. Che lo sia veramente la cosa non è certa, ma la sensazione è esattamente quella di bere una bevanda eccellente.
Io sono sfinito, così stanco da non riuscire neppure a dormire, vago per la città e mi incontro con Corrado ed altri amici di Vibram. Visito l’expo della UTMB e cerco di arrivare al meglio a sera. Finalmente all’imbrunire scambio un paio di messaggi di buona notte e collasso nel camper di Fabio.
Andrea Papini – Ritirato della PTL